ORISTANO, 19/07/2021 – Di recente si è tornato a parlare di legalizzazione della cannabis. Le proposte di legge avanzate da PD, M5S e Lega vanno in direzioni differenti ma hanno avuto il merito di riaccendere l’attenzione su di un tema da sempre foriero di polemiche e contrasti. Dal centrosinistra sono arrivate proposte che puntano ad alleggerire le sanzioni attualmente previste per la detenzione e l’uso personale dei derivati della cannabis; di contro, la Lega punta a rendere più aspra la normativa vigente in materia.
La questione, nell’insieme, si presenta piuttosto complessa, sia sul piano politico sia dal punto di vista etico e normativo. Ad incentivare la confusione, infatti, ha – paradossalmente – contribuito anche la legge che ha di fatti introdotto i prodotti ‘light’, ossia quasi del tutto privi di THC (inferiore o pari allo 0,5%) e, di conseguenza, incapaci di sortire alcun tipo di effetto stupefacente. Questo genere di derivati viene commercializzato anche in Italia da diversi anni ed è facilmente reperibile presso negozi specializzati o e-commerce quali Prodotti Cannabis. Ciò nonostante, affermare che in Italia la cannabis sia stata legalizzata è sostanzialmente sbagliato, benché occorra fare gli opportuni distinguo.
Cosa dice la legge
Il principale riferimento normativo in materia, almeno per quanto concerne la legislazione italiana, è la Legge n. 242 del 2 dicembre 2016 (“Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa ha consentito in Italia la coltivazione della canapa”). Entrata in vigore il 14 gennaio dell’anno successivo, la legge ha come scopo principale quello di implementare “il sostegno e la promozione della coltivazione e della filiera della canapa”.
Per quanto riguarda le varietà coltivabili, il testo ne indica soltanto una, denominata “Cannabis sativa L”. Quest’ultima è ammessa alla coltivazione in quanto inserita all’interno del “Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole”.
Stando a quanto stabilito dall’articolo 2 della legge sopra citata, dalla coltivazione della canapa è possibile ottenere:
– alimenti e cosmetici;
– semilavorati (fibra, canapulo, cippato, olio e carburante);
– materiale da destinare al sovescio;
– materiale organico per lavori di bioingegneria;
– materiale per la bonifica di siti inquinati;
– coltivazioni didattiche e dimostrative o destinate al florovivaismo.
Le ambiguità della norma
Come si evince da quanto riportato, allo stato attuale la normativa si presenta piuttosto generica ed ampiamente lacunosa. Il testo, infatti, non cita espressamente quali siano le parti della pianta utilizzabili e destinabili alla trasformazione.
In aggiunta, il fatto che la cannabis sativa possa essere coltivata “esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi dall’uso farmaceutico, con sementi certificate, in applicazione della normativa di settore, secondo le indicazioni del Ministero delle politiche alimentari, agricole e forestali” è una precisazione riportata dal portale ufficiale della Camera dei Deputati che, pur essendo una fonte autorevole, non rappresenta una fonte di diritto. In sostanza, non è esplicitamente vietato consumare alcune parti della canapa (foglie, infiorescenze e resina) in maniera diversa da quelle sopra indicate, benché non si possa desumere che altre modalità di utilizzo siano pienamente legali.
La giurisprudenza contrastante
Come spesso accade, tocca alla giurisprudenza colmare le lacune della legge. Purtroppo, non si è ancora affermato un orientamento univoco da parte dei giudici della Cassazione; di conseguenza, pronunce molto diverse tra loro alimentano ulteriormente la confusione e l’ambiguità.
A fare particolare scalpore è stata la sentenza n. 12348 del 16 aprile 2020 che, in sostanza, riteneva legale la coltivazione di una moderata quantità di cannabis destinata all’uso personale. Secondo gli ermellini, infatti, il reato di coltivazione di piante stupefacenti, nel caso di specie di un uomo che aveva due piantine in casa, non si configura, per via del numero esiguo di piante e dell’applicazione di tecniche rudimentali mediante le quali ottenere quantità irrisorie di sostanza potenzialmente stupefacente. Tale sentenza ha avuto notevole risonanza in quanto contrasta apertamente con un’altra emessa nel 2019, che stabiliva come alcuni derivati della cannabis (olio e infiorescenze) non rientrassero nell’ambito di applicazione della legge n. 242/2016.
Fonte: adnkronos.com