Sommario
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- Le diverse varietà botaniche di canapa
- L’approvazione della l. 2 dicembre 2016 n. 242 e gli usi leciti della Cannabis sativa light
- L’ambito soggettivo di applicazione della l. 2 dicembre 2012 n. 242: la vendita di sostanze psicoattive estratte dalla Cannabis sativa L. è ancora un reato
- L’utilizzo della Cannabis sativa L. negli alimenti. il d.m. 4 novembre 2019 del Ministero della Salute
1. Le diverse varietà botaniche di canapa
La canapa è una pianta erbacea a ciclo annuale, appartenente alla famiglia della cannabaceae (la stessa a cui appartiene anche il luppolo, le cui utilizzazioni industriali ed alimentari son ben note ed apprezzate), la cui altezza – a seconda delle sottospecie – arriva fino a 6 metri; presenta un fusto flessuoso e di non grosse dimensioni in termini di circonferenza, eretto e ramificato e con escrescenze resinose.
Le foglie sono dotate di picciolo, per il tramite del quale si collegano al tronco, e provviste di stipole collocate in pros-simità del picciolo; ciascuna foglia è palmata ed è composta, a sua volta, da un numero di foglioline lanceolate, con mar-gine dentato o seghettato, di solito in numero compreso fra cinque e tredici, di lunghezza fino a 10 cm. e larghezza fino ad 1, 5 cm.
Le piante di canapa sono sia monoiche sia dioiche ossia, in sostanza, la riproduzione può avvenire sia attraverso gli organi riproduttivi (maschili o fem-minili) presenti sulla stessa pianta sia mediante incrocio con altre piante della medesima varietà botanica: i fiori maschili sono chiamati staminiferi, quelli femminili pistilli-feri.
La pianta germina ordinariamente in primavera e fiorisce ad estate inoltrata, ad eccezione della cannabis ruderalis la quale, invece, dopo un periodo di crescita di tre o quattro settimane, fiorisce per un periodo di tempo compreso fra quattro e sei settimane. In ogni caso, il periodo di fioritura è influenzato dalle condizioni ambientali esterne.
Il contenuto di metaboliti secondari determina la tassonomia di questa particolare varietà botanica, distinguendo due sottogruppi in ragione dell’enzima di biosintesi dei cannabinoidi. Si distinguono:
- il chemio-tipo CBD, caratterizzato dalla presenza dell’enzima CBD-A, che contraddistingue la canapa destinata a usi agroindustriali e terapeutici ;
- il chemio-tipo THC, caratterizzato dall’enzima THC-A, tipico delle varietà destinate a produrre inflorescenze e medicamenti.
Alcuni ibridi presentano entrambi gli enzimi.
I preparati psicoattivi come l’hashish e la marijuana sono costituiti dalla resina e dalle infiorescenze femminili ottenu-te dal genotipo THC-A; bisogna comunque sempre ricordare che, nel corso del secolo scorso, in alcuni Paesi vennero se-lezionate alcune varietà di pianta destinate a usi esclusiva-mente agroindustriali, ottenute dal genotipo CBD-A, distinte da un contenuto molto limitato del metabolita dei cannabi-noidi minori.
Nell’odierna tas-sonomia vengono riconosciute tre diverse varietà di cannabis:
- la cannabis sativa, detta anche canapa utile;
- la cannabis indica, nota anche come canapa indiana;
- la cannabis ruderalis, nota anche come canapa ruderale o russa o americana.
A livello unionale, l’art. 17 direttiva 2002/53/CE del Consi-glio del 13 giugno 2002 ha creato il «Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole» in cui si trovano iscritte tutte le varietà botaniche le cui sementi e materiali di moltiplicazione non sono soggetti ad alcuna restrizione di commercializzazione. Fra queste, nella sezione III relativa alle «Piante oleaginose a fibra», è indicata al n. 63 la Can-nabis sativa L. ma non le altre due varietà botaniche sopra citate.
2. L’approvazione della l. 2 dicembre 2016 n. 242 e gli usi leciti della Cannabis sativa light
Con la l. 2 dicembre 2016 n. 242, il legislatore italiano ha adottato una serie di misure finalizzate al sostegno ed alla promozione della coltivazione e della filiera della canapa – limitatamente alla varietà Cannabis sativa L. – in quanto considerata coltivazione (cfr. art. 1 c. 1):
- in grado di contribuire alla riduzione dell’impatto ambientale in agricoltura, del consumo dei suoli, alla desertificazione ed alla perdita della biodiversità;
- da impiegare quale possibile sostituto di colture eccedentarie e come coltura da rotazione.
Già da una prima lettura degli scopi che si propone il legislatore nazionale, non vi è quello di rendere lecita la produ-zione di Cannabis sativa L. destinata ad essere assunta direttamente all’essere umano a fini di stupefazione.
La novella, ad ogni buon conto, si applica (cfr. art. 1 c. 2) alle sole coltivazioni di canapa appartenenti alle varietà botaniche iscritte «Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole» di cui alla direttiva 2002/53/CE del Consiglio del 13 giugno 2002; tali varietà, per espressa disposizione del legislatore, pertanto, sono espunte dall’ambito di applicazione del d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 in materia di stupefacenti.
Nondimeno, come precisato dal successivo art. 1 c. 3 l. cit., le misure di sostegno e promozione (e, più in generale, l’intera disciplina detta dalla l. 2 dicembre 2016 n. 242) si applicano unicamente a favore delle colture di canapa finalizzate:
- alla coltivazione e alla trasformazione;
- all’incentivazione dell’impiego e del consumo finale di semilavorati di canapa provenienti da filiere prioritariamente locali;
- allo sviluppo di filiere territoriali integrate che valorizzino i risultati della ricerca e perseguano l’integrazione locale e la reale sostenibilità economica e ambientale;
- alla produzione di alimenti, cosmetici, materie prime biodegradabili e semilavorati innovativi per le industrie di diversi settori;
- alla realizzazione di opere di bioingegneria, bonifica dei terreni, attività didattiche e di ricerca.
La coltivazione della Cannabis sativa L. appartenente alle varietà iscritte nel «Catalogo comune delle varietà delle spe-cie di piante agricole» è sempre consentita e, ai sensi dell’art. 2 c. 1 l. cit., non necessita di preventiva autorizza-zione o, meglio, non richiede autorizzazioni amministrative diverse rispetto a quelle ordinariamente richieste per l’attività di coltivazione agricola.
Nondimeno, se è vero che la sua coltivazione è libera ‒ salvo l’obbligo per il coltivatore di conservare per almeno 12 mesi di cartellini delle sementi acquistate e le relative fat-ture di acquisto per il periodo previsto dalle vigenti disposi-zioni, cfr. art. 3 l. cit. ‒ non si può dire lo stesso, a valle, della destinazione dei prodotti così ottenuti: in sostanza, se è libera la piantumazione in un fondo o in una serra di pian-te di Cannabis sativa L., i possibili impieghi leciti della resa di tale attività sono predeterminati da parte del legislatore e, di conseguenza, il coltivatore non potrà fare altro che muo-versi nell’ambito di una delle sette alternative predetermina-te a livello normativo.
Ai sensi dell’art. 1 c. 2 l. 2 dicembre 2012 n. 242 dalla canapa coltivata è possibile solo ottenere solo:
- alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;
- semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;
- materiale destinato alla pratica del sovescio;
- materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;
- materiale finalizzato alla fitodepurazione per la boni-fica di siti inquinati;
- coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati;
- coltivazioni destinate al florovivaismo.
L’art. 4 l. cit. prevede la possibilità di effettuare controlli sulle coltivazioni in parola, anche a mezzo di prelievo di campioni ed analisi di laboratorio, da parte dei Carabinieri Forestali (già Corpo Forestale dello Stato). Considerato il fatto che, in botanica, sono frequenti i casi di ibridazione spontanea delle piante, il legislatore ha opportunamente previsto una sorta di “tolleranza” a favore del coltivatore nel caso in cui le analisi di laboratorio evidenzino la presenza, nei campioni di pianta acquisiti, di THC.
Infatti, ai sensi dell’art. 4 c. 5 l. cit., qualora all’esito del controlli il contenuto complessivo di THC sia superiore allo 0,2% ed entro lo 0,6%, nessuna violazione può essere ascritta al coltivatore il quale di-mostri di avere rispettato le prescrizioni imposte dalla stessa l. 2 dicembre 2012 n. 242: si tratta, come evidente, di una causa oggettiva di esclusione dell’antigiuridicità di un comportamento che, altrimenti, rientrerebbe a pieno titolo nel perimetro applicativo dell’art. 39 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309.
Da tale disposizione derivano tre conseguenze:
- in primo luogo, se il contenuto di THC accertato è su-periore allo 0,6%, il coltivatore va sicuramente incontro a responsabilità penale per la violazione dell’art. 73 d.P.R. cit.;
- se il contenuto di THC è pari o inferiore allo 0,2% (si tratta di un valore molto prossimo alla soglia di rilievo strumentale), l’attività dell’agricoltore è da considerare ex se lecita;
- se, in ultimo, il contenuto di THC è compreso fra lo 0,2% e lo 0,6%, opera la clausola di esclusione dell’antigiuridicità sopra richiamata.
3. L’ambito soggettivo di applicazione della l. 2 dicembre 2012 n. 242: la vendita di sostanze psicoattive estratte dalla Cannabis sativa L. è ancora un reato
L’intervento legislativo di fine 2012 è chiaramente diretto, come evidenziato dalle stesse parole usate dal legislatore, al sostegno della filiera produttiva della coltivazione della canapa e, pertanto, le sue disposizioni hanno un perimetro applicativo limitato sotto l’aspetto sia oggettivo sia soggettivo:
- dal punto di vista oggettivo, oltre ad applicarsi alle sole coltivazioni delle varietà botaniche di Cannabis sativa L. indicate nel «Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole», hanno efficacia nel solo caso in cui il prodotto derivante dalla coltivazio-ne sia destinato ad una delle finalità previste dall’art. 2 c. 2 l. 2 dicembre 2012 n. 242, , fra le quali non è indicata la produzione di sostanze ad effetto stupefacente o psicotropo: una simile condotta era ed è ancora oggi qualificabile ai sensi dell’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309;
- anche la stessa coltivazione di Cannabis sativa L., pertanto, è illecita qualora non sia volta ad una delle finalità previste dall’art. 2 c. 2. cit.: la difficoltà, in questi casi, risiede nell’individuazione quale sia il “fine ultimo” della coltivazione e, pertanto, è da ritenersi che nella maggior parte casi – qualora l’attività sia condotta da un agricoltore nel rispetto formale delle previsioni della l. cit. – ben difficilmente il suo com-portamento potrà assurgere ad illecito anteriormente al primo atto di commercializzazione del prodotto ossia, in sostanza, prima dell’effettiva destinazione ad un uso “non consentito” della canapa.
Se si esamina con attenzione l’art. 2 c. 2 l. cit., ad eccezione dell’uso a fine cosmetico ed alimentare, tutti gli altri impieghi sono di tipo “industriale” e presup-pongono la cessione del prodotto non ad un consumatore finale ma ad un operatore economico che, a vario titolo, lo utilizza nell’ambito di un ulteriore processo agricolo (cfr. art. 2 c. 2 n. 3 l. cit.) o artigianale o industriale; - dal punto di vista soggettivo, invece, le sue disposi-zioni sono applicabili unicamente ai coltivatori, e non anche ad altri soggetti che, a vario titolo, intervengono nella catena commerciale.
Al riguardo, la Corte Cass., Sez. Un., 10/07/2019 (ud. 30/05/2019) n. 30475 ha risolto la querelle giurisprudenziale esistente far le diverse sezioni della stessa Corte. Rispondendo al quesito giudico «se le condotte diverse dalla coltivazione di canapa delle varietà di cui al catalogo indicato nella L. 2 dicembre 2016, n. 242, art. l, comma 2, e, in particolare, la commercializzazione di Cannabis sativa L., rientrino o meno, e se sì, in quali eventuali limiti, nell’ambito di applicabilità della predetta legge e siano, pertanto, penalmente irrilevanti ai sensi di tale normativa», ha in primo luogo analiz-zato le fonti eurounionali applicabili al caso di specie (la direttiva 2002/53/CE del Consiglio del 13 giugno 2002 e la decisione quadro 2004/757/GAI dei Consiglio del 25 ottobre 2004, riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti), evidenziando che:
la Direttiva U.E. 2002/53 riguarda le sementi e stabilisce quali possano essere ammesse alla coltivazione […]. E’ proprio il descritto ambito agroindustriale della Direttiva che, per un verso, chiarisce e delimita la portata delle disposizioni che promuovono la colti-vazione della Cannabis sativa L., nell’Unione Europea; e, per altro verso, ne garan-tisce la coerenza con un altro strumento sovranazionale, vale a dire la dec. quadro U.E. 2004/757 […]. Detta Decisione Quadro, infatti, nel delineare le condotte connesse al traffico di stupefacenti che gli Stati membri dell’Unione Europea sono chiamati a configurare come reati, richiama espressamente la coltura della “pianta della cannabis” (art. 2, comma 1, lett. b); ed il testo normativo precisa che sono escluse dal campo di applicazione della medesima decisione quadro le condotte tenute dai loro autori esclusivamente ai fini del loro consumo personale, quale definito dalle rispettive legislazioni nazionali. Deve, pertanto, rilevarsi che la coltura agroindustriale della cannabis, connessa e funzionale alla produzione di sostanze stupefacenti, rientra certamente tra le condotte che gli Stati membri sono chiamati a reprimere sulla base della Decisione Quadro.
In considerazione delle peculiari finalità, dichiarate expressis verbis dallo stesso legislatore, della l. 2 dicembre 2012 n. 242, le Sezioni Unite hanno riconosciuto che la sua applicabilità è limitata sia dal punto di vista soggettivo sia da quello oggettivo:
merita condivisione l’orientamento giurisprudenziale che, muovendo dal rilievo che la L. 2 dicembre 2016, n. 242 ha previsto la liceità della sola coltivazione della cannabis sativa L. per le finalità espresse e tassativamente indicate dalla novella, ha affermato che la commercializzazione dei derivati della predetta coltivazione, non compresi nel richiamato elenco, continua a essere sottoposta alla disciplina del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Sez. 6, n. 56737 del 27/11/2018, Ricci, cit.).
Sempre per le Sezioni Unite, i “casi” di lecita coltivazione della Cannabis sativa L. sono di stretta interpretazione; lo si evince dal modo in cui la Suprema Corte delimita il perimetro applicativo di uno dei casi previsti, ossia la produzione di alimenti (peraltro oggi disciplinata dal d.m. 04/11/2019 del Ministero della Salute), sottolineando la circostanza che esso non può essere considerato alla stregua di una “finestra” dal quale consentire l’ingresso nell’ordinamento di una non consentita commercializzazione di foglie o infiorescenze (ossia le parti della pianta in cui si rileva la presenza del THC). Si legge, infatti, nella parte motiva della sentenza:
[…] la legge non consente la produzione di foglie o inflorescenze; di talché risulta escluso che il legislatore, ri-chiamando la produzione di alimenti, abbia fatto riferimento alla assunzione umana di tali derivati. Di converso, l’indicazione, tra i prodotti ottenibili dalla canapa sativa L., di quelli qualificati come alimenti, peraltro da realizzare esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori (L. n. 242 del 2016, art. 2, lett. a), induce a rilevare che il legislatore ha posto a carico del produttore l’obbligo di osservare la rigorosa disciplina che regola il settore alimentare, qualora intenda produrre alimenti derivati dalla canapa, quali semi o farine. […] Anche le previsioni relative alla produzione di alimenti, lungi dal corroborare l’ipotesi di una generalizzata liceità della commercializzazione dei derivati dalla coltivazione promossa dalla L. n. 242 del 2016, rafforza la tesi del carattere tassativo e di stretta interpretazione del catalogo dei prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione della cannabis sativa L. 5.2. Si richiamano ora le clausole di esclusione di responsabilità in favore dell’agricoltore, di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7.L’applicabilità della l. 2 dicembre 2016 n. 242 a favore dei soli coltivatori e per le sole coltivazioni destinate ad uno dei fini espressamente previsti dal legislatore ha, quale corollario, la limitazione dell’applicabilità delle “soglie di non punibilità”, previste dall’art. 4 c. 5 l. cit. nel caso in cui la percentuale di THC sia superiore allo 0,2% ed entro lo 0,6%, alle sole ipotesi in cui sia applicabile la legge stessa. Ne consegue, pertanto, che tale disposizione non può essere richiamata per giustificare la cessione e la commercializzazione di derivanti dalla Cannabis sativa L..
Si legge nella sentenza:
Si tratta di misure volte a tutelare esclusivamente l’agricoltore che, pur impiegando qualità consentite, nell’ambito della filiera agroalimentare delineata dalla novella del 2016, coltivi canapa che, nel corso del ciclo produttivo, risulti contenere, nella struttura, una percentuale di THC compresa tra lo 0,2 per cento e lo 0,6 per cento, ovvero superiore a tale limite massimo. Il comma 5 stabilisce che, nel primo caso, nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge; e il comma 7, nel prevedere la possibi-lità che vengano disposti il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa che, se pure impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla legge, presentino un contenuto di THC superiore allo 0,6 per cento, ribadisce che, anche in tal caso, è esclusa la responsabilità dell’agricoltore. Si tratta di clausole di esclusione della responsabilità che riguardano il solo coltivatore, che realizza le colture di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 1, per il caso in cui la coltura lecitamente impiantata, in corso di maturazione, presenti percentuali di THC superiori ai valori soglia indicati del medesimo testo normativo del 2016.
Occorre al riguardo rilevare che erroneamente le richiamate percentuali di THC sono state valorizzate, al fine di affer-mare la liceità dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L. ‒ e la loro commercializzazione ‒ ove contenenti percentuali inferiori allo 0,6 ovvero allo 0,2 per cento.
La Corte di Cassazione ha quindi concluso evidenziando che:
[…] la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivanti dalla coltivazione di cannabis sativa L., integra la fattispecie di reato di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., atteso che la tabella II richiama testualmente tali derivati della cannabis, senza effettuare alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto. Ed il fatto che la norma incriminatrice di cui all’art. 73, commi 1 e 4, T.U. stup., riguardante la circolazione delle sostanze indicate dal-la Tabella II, non effettui alcun riferimento alle concentrazioni di THC presenti nel prodotto commercializzato, non risulta incoerente rispetto ai limiti di tollerabilità di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7, stante la disomogeneità sostanziale dei termini di riferimento. La norma incriminatrice, infatti, riguarda la commercializzazione dei derivati della coltivazione ‒ foglie, inflorescenze, olio e resina ‒ ove si concentra il tetraidrocannabinolo; diversamente, la novella del 2016, nel promuovere la coltivazione agroindustriale della canapa a basso contenuto di THC, proveniente da semente autorizzata, pone dei limiti soglia rispetto alla concentrazione presente nella coltura medesima, rilevanti anche ai fini della erogazione dei benefici economici per il coltivatore ed elenca tassativamente i prodotti che è possibile ottenere dalla coltivazione, tra i quali non sono ricompresi foglie, inflorescenze, olio e resina.
ed ha pronunciato il seguente principio di diritto:
La commercializzazione al pubblico di cannabis sativa L. e, in particolare, di foglie, inflorescenze, olio, resina, ottenuti dalla coltivazione della predetta varietà di canapa, non rientra nell’ambito di applicabilità della L. n. 242 del 2016, che qualifica come lecita unicamente l’attività di coltivazione di canapa delle varietà ammesse e iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell’art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002 e che elenca tassativamente i derivati dalla predetta coltivazione che possono essere commercializzati, sicché la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio, resina, sono condotte che integrano il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dalla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività.
Il principio dettato dalle Sezioni Unite ha, come ovvio, avuto diffusa applicazione dalla giurisprudenza sia di merito sia di legittimità; fra le più importanti, anche per la diffusività della motivazione, vi sono la Corte Cass., Sez. III, 13/05/2020 (ud. 12/12/2019) n. 14735 in cui si legge:
Non sembra revocabile in dubbio, pertanto, che il commercio o anche solo la messa in vendita di cannabis costituisca reato a tutti gli effetti previsti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4. […] Rispetto all’oggetto materiale della condotta, non ha senso alcuno definire la sostanza come light alla luce della quantità di principio attivo in essa contenuto. Deve essere perciò esclusa in radice la tesi difensiva del cd. doppio binario (lecito/illecito), a seconda del superamento o meno della soglia dello 0,5% di principio attivo che non ha alcun aggancio normativo; la detenzione per la vendita, la messa in commercio e la vendita di cannabis (foglie, infiorescenza, olio, resina) sono tutte condotte alternativamente previste e sanzionate come reato dal D.P.R. n. 309, cit., art. 73, commi 1 e 4. […] La condotta di detenzione di sostanze stupefacenti è unica e non frazionabile in base alle ipotetiche dosi da essa ricavabili. Se cioè da una quantità complessiva di sostanza possono ricavarsi un certo numero di singole dosi, il reato è perfetto in ogni sua forma e riguarda l’intera partita di droga detenuta, a prescindere dal fatto che qualche confezione o dose, in concreto, contenga una quantità di principio attivo molto bassa o non ne contenga affatto perché, semmai, ciò può rilevare ai fini della successiva cessione della sostanza e della qualificazione di tale condotta come autonomo reato, ma non ai fini della detenzione della complessiva sostanza. E’ perciò del tutto speciosa l’eccezione secondo la quale il pubblico ministero avrebbe dovuto prima a campionare alcune bustine e poi decidere se e quali sequestrare; un tale approccio di metodo è del tutto errato perché prende in considerazione una frazione della condotta non la sua interezza.
e la (peraltro del tutto conforme) Corte Cass., Sez. III, n. 03/07/2020 (ud. 17/01/2020) n. 19990, nonché la recentissima Corte Cass., Sez. IV, 15/03/2021 (ud. 25/02/2021) n. 10021 per la quale:
[…] la commercializzazione di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, anche se il contenuto di THC sia inferiore alle concentrazioni indicate alla L. 2016, art. 4, commi 5 e 7 […] Sulla base di tali principi, il Tribunale ha ritenuto che il citato decreto del Ministero dell’Agricoltura ‒ che ha menzionato la «canapa sativa inflorescenza» destinata ad «usi estrattivi» tra le piante officinali ‒ non abbia mutato il quadro normativo, secondo cui permane la rilevanza penale dell’attività di vendita sul libero mercato di estratti dalle inflorescenze di canapa sativa destinati al consumo ed aventi effetti droganti.
Ancora, la l. 2 dicembre 2016 n. 242 non contiene alcuna disposizione o previsione dalla quale si possa evincere la legalizzazione dell’importazione, sul territorio nazionale, di Cannabis sativa L., seppure – in ipotesi – destinata alle peculiari lavorazioni previste dall’art. 2 c. 2 cit.. Al riguardo, si può richiamare il contenuto della Corte Cass., Sez. VI, 17/12/2018 (ud. 27/11/2018) n. 56737 che, rigettando un ricorso cautelare avverso il sequestro di marijuana definita “light”, così motiva:
In applicazione del predetto principio, deve essere rigettato il prospettato error in judicando in ordine alla astratta conformità al tipo legale di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, della fattispecie materiale sottoposta a giudizio in relazione alla marijuana ed all’hashish sequestrati al ricorrente, delle quali ‒ va pure annotato ed oltre tutto quanto si è sopra detto ‒ non è neanche allegata la provenienza da coltivazioni lecite nel territorio italiano, ma la loro importazione da produzioni estere, così esulando anche dalla stessa prospettazione difensiva volta ad estendere la liceità della coltivazione della canapa alla commercializzazione dei suoi derivati marjuana ed hashish.
4. L’utilizzo della Cannabis sativa L. negli alimenti. il d.m. 4 novembre 2019 del Ministero della Salute
Come anticipato sopra, uno dei possibili “scopi” della coltivazione lecita della Cannabis sativa L. è quello alimentare; a tale riguardo, il d.m. 4 novembre 2019 del Ministero della Salute, emesso in attuale della delega contenuta nell’art. 5 l. 2 dicembre 2016 n. 242, indica i livelli massimi di THC che possono essere presenti negli alimenti.
Va specificato che per “produzione alimentare” ai sensi dell’art. 2 c. 2 lett. a) l. cit. non si intende esclusivamente l’uso diretto, a tale fine, della pianta di Cannabis sativa L. ma anche l’utilizzo di prodotti derivanti dalla lavorazione di alcune sue parti nell’industria alimentare.
L’art. 2 c. 2 lett. c) d.m. cit. definisce “alimenti derivati dalla canapa” le “parti e/o derivati dalle piante della canapa che hanno fatto registrare un consumo significativo alimentare ai sensi del regolamento (UE) n. 2015/2283” e, nel successivo art. 4 c. 1, dispone che “gli alimenti derivati dalla canapa sono definiti nell’allegato I” dello stesso.
Ai sensi di tale allegato, l’unica parte della pianta di canapa che può essere utilizzata a fini alimentari sono i semi i quali possono essere impiegati tali quali o sotto forma di olio o di farina.
Il limite imposto dalla fonte ministeriale è diretta conseguenza del fatto che, il principio attivo del THC è concentrato in via quasi esclusiva nelle foglie e la brattee floreali (ossia infiorescenze); esso, invece, è del tutto assente nei semi tanto è vero che il Ministero della Salute e delle Politiche Sociali ha chiarito, con la circolare n. 15314-P del 22/05/2009, che «la possibilità di rilevare tracce di sostanze psicoattive nei prodotti della lavorazione dei semi (farine ed olii) sarebbe dovuta esclusivamente all’accidentale contaminazione degli organi floreali, quali le brattee, che possono avvolgere il seme anche a maturazione completata».
Ciò non significa, ovviamente, che possano essere commercializzati, quali alimenti, solo i semi, le farine di semi e l’olio di semi; è infatti del tutto lecita la produzione di alimenti più complessi (ad es. una torta di verdure insaporita con olio di semi di canapa), a condizione che non siano utilizzati prodotti (canapa-derivati) diversi da quelli sopra citati (a titolo di esempio, se è lecita la produzione e messa in commercio di una tisana contenente semi di Cannabis sativa L., è sicuramente illecita quella di una tisana contenente infiorescenze della medesima pianta). Tale conclusione è corroborata dalla lettura del successivo art. 5 cc. 1 e 2 d.m. cit. ai sensi del quale
- I limiti massimi di THC totale ammissibile negli alimenti sono fissati nell’allegato II al presente decreto.
- Agli alimenti diversi da quelli citati nell’allegato II al presente decreto, si applica l’art. 2 del regolamento (CE) n. 1881/2006 e successive modificazioni.
Ai sensi di tale allegato II, i limiti massimi di THC che possono essere presenti negli alimenti sono i seguenti:
- per i semi (compresi quelli triturati, spezzettati, macinati diversi dalla farina) di canapa e la farina ottenuta dai semi di canapa: 2,0 mg./kg. (pari allo 0,2% in termini di peso);
- per l’olio ottenuto da semi di canapa: 5,0 mg./kg. (pari allo 0,5% in termini di peso);
- per gli integratori contenenti alimenti derivati dalla canapa: 2,0 mg./kg. (pari allo 0,2% in termini di peso).
Fonte: altalex.com